Nel primo pomeriggio in casa dell’estate, abbiamo visto in dvd “Qualcosa di straordinario”, della Universal Pictures.
In ambientazione artica, il film narra la storia realmente accaduta del salvataggio di tre balene grigie intrappolate sotto il ghiaccio dell’Alaska, che per giorni ha tenuto incollato ai televisori l’emozionabile pubblico americano, coinvolgendo addirittura il presidente Reagan nella richiesta di collaborazione da parte di un rompighiaccio sovietico, sul finire della Guerra Fredda, prima della caduta del muro di Berlino. La vicenda coinvolge in maniera corale un giovane reporter, un’attivista di Greenpeace e un grande petroliere, la comunità Inuit di Barrow, i grandi network televisivi con la loro audience, per arrivare fino all’amministrazione Reagan e all’URSS coi loro eserciti. La caratterizzazione dei personaggi, l’analisi delle diverse motivazioni e della complessità degli interessi coinvolti, il tentativo di critica ai media americani rimangono tuttavia solo accennati e quello che ne risulta è un film di buoni sentimenti adatto a tutta la famiglia.
L’attenzione dei bambini infatti si è concentrata soprattutto sulla riuscita dell’impresa commovente, per la cui realizzazione, in un modo o nell’altro, si sono uniti gli sforzi di tutti superando le distanze iniziali.
A me invece è rimasto un po’ di disagio, come sempre mi succede quando mi trovo a riconoscere il solito abile meccanismo di costruzione dei “casi mediatici”, il cinismo con cui si stabilisce cosa la gente “debba sapere” sulla base di quello che si pensa “voglia sapere”…
Disagio accresciuto dall’aver proprio appena finito di leggere “Metà di un sole giallo”, bellissimo romanzo della giovane autrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, in cui una storia di sentimenti familiari, ideali e passione si intreccia drammaticamente con gli avvenimenti che, alla fine degli anni ’60, hanno portato alla proclamazione della Repubblica del Biafra ed alla conseguente guerra con la Nigeria, che ha ridotto la popolazione di etnia Igbo in una condizione di isolamento e resistenza, a morire letteralmente di fame.
Una di quelle letture che lasciano il segno a lungo, per le atmosfere e i personaggi che entrano dentro e, soprattutto, per il forte senso di colpa: possibile che sinora di tutto questo -come di tanti altri analoghi drammi- non sapessi quasi nulla? che mi fossi accontentata di idee molto vaghe, senza interrogarmi su cosa stesse dietro a quelle immagini di bambini denutriti che ci venivano mostrate come se fossero fuori dal tempo, a quelle espressioni di fame proverbiale che quando ero piccola sentivo accostare al Biafra, come se si trattasse del “destino” di una popolazione, ignorando quali fossero le cause e le precise responsabilità di un conflitto crudele e quale fosse la vita di quelle persone prima della guerra, al di là degli stereotipi?
E ancora di più brucia la consapevolezza che anche oggi, nell’epoca di Twitter e dell’illusione di aver accesso diretto a molte informazioni, troppi popoli possano ancora fare proprio il grido di accusa che attraversa tutto il libro: “il mondo taceva mentre noi morivamo”.